Un viaggio che vale un Perù… in moto dal Pacifico alle Ande

UN VIAGGIO CHE VALE UN PERU’… in moto dal Pacifico alle Ande

 

UN VIAGGIO CHE VALE UN PERU’… in moto dal Pacifico alle Ande: Parto dall’Italia in pieno inverno, a Milano piove e ci sono due gradi ma ho un sorriso ebete stampato sulle labbra… vado in Sud America, atterro a Lima, lì è piena estate!

Nel bagaglio da stiva imbarco il mio solito tubo Amphibious 80 litri con tutto il mio equipaggiamento: casco, stivali, guanti, giacca e pantaloni. Mi aspettano un paio di settimane per esplorare il Perù in moto.
Dopo una ventina di ore e uno scalo a Madrid atterro all’aeroporto internazionale Jorge Chavez di Lima, i gradi sono ventisette e il sole splende! La capitale peruviana è una metropoli di quasi dieci milioni di abitanti e il suo traffico è impossibile; fondata dal conquistador spagnolo Francisco Pizarro nel 1535, conserva ancora, nel suo centro storico, numerose vestigia dell’era coloniale che le hanno valso il riconoscimento di sito patrimonio dell’UNESCO.
Nel giorno di riposo dedicato allo smaltimento del fuso orario gironzolo per il centro fra la Plaza Mayor e i numerosi palazzi nobiliari celebri per i loro “balconi” in legno. Passo la serata passeggiando fra i locali del Barranco, animato quartiere della città nuova affacciato a strapiombo sull’oceano Pacifico.

La mattina successiva, appena ho preso possesso della moto, dirigo a sud e, avvolto dalla nebbia e con un tasso di umidità da record, percorro la Statale 1, la celebre Carretera Panamericana; la strada corre lungo l’oceano e separa le alte dune dalle spiagge infinite; il paesaggio, a dire il vero un po’ monotono, è animato solo dalle variopinte insegne che consigliano più o meno scalcinate località turistiche dai piani regolatori discutibili.

Entrato nella Regione di Ica, lo scenario muta: si moltiplicano all’infinito filari di vigneti per la produzione di vino e Pisco, l’acquavite divenuta bevanda nazionale; nell’omonima città inizio la mia relazione morbosa con il cebiche (e le relative cebicherie), niente altro che pesce o frutti di mare crudi marinati nel limone conditi con peperoncino e coriandolo e serviti con patate e cipolle… uno spettacolo! Le cebicherie si trovano ovunque in sud America sulla costa del Pacifico, che si tratti di baracche sulla strada o ristoranti eleganti con vista, il risultato non cambia, il pesce è freschissimo e le porzioni sono sempre molto abbondanti.
Proseguo per una ventina di chilometri ed arrivo alla baia di Paracas e alle sue spiagge rosse, dal porto partono le escursioni per le isole Ballestas, una sorta di Galapagos peruviane, poco più di un pugno di scogli abitati da decine forse centinaia di specie diverse di ogni sorta di animale marino; al ritorno mi commuovo alla vista del “candelabro”, una grande incisione geroglifica che anticipa le più note linee di Nazca.
Continuo verso Mezzogiorno, la Panamericana devia verso l’interno e il cuore della regione, le aziende vinicole sono ovunque ma io sono diretto all’oasi di Huacachina, un piccolo villaggio alla periferia di Ica sorto intorno ad una laguna ombreggiata da palme e circondata da imponenti ed altissime dune. Certamente la destinazione è “turistica” e un po’ artificiale ma i vari tour nel deserto a disposizione sono spettacolari e al tramonto i colori sono fantastici; con la dovute proporzioni e cautele, la zona mi ricorda il Fezzan e i laghi Ubari in Libia.

Ancora centocinquanta chilometri di moto e cambio il casco con le cuffie e il DR 650 con un Cessna 172 … sono al piccolo aeroporto turistico di Nazca, un polveroso avamposto in mezzo al niente privo di qualsiasi attrattiva se non quella della prossimità alla misteriose e celebri linee, giganteschi disegni tracciati dall’uomo più di duemila anni fa e visibili chiaramente solo dall’alto.

Il volo “acrobatico” dura una mezz’ora e costa un centinaio di dollari, imperdibile!

Lungo la Statale 1 i distributori di benzina non sono molto frequenti, generalmente sono in grandi aree dove si può trovare di tutto: officine, gommisti, piccoli negozi e ristoranti (ognuno specializzato in una sola pietanza); ovunque si trova la birra più diffusa, la chiara o scura Cusquena; la Carretera corre a volte in alto sulla scogliera, altre al livello del mare a poca distanza dalla battigia; il sound del mono Suzuki diventa ipnotico quasi come un mantra, il paesaggio lunare che mi circonda mi affascina, solo viaggiando in moto provo sensazioni così forti, un così profondo senso di libertà.

Dopo quasi novecento chilometri di Oceano piego verso l’interno e dopo poco prendo la 109 verso nord, l’asfalto cede presto il passo ad una bella pista che attraversa alcuni insediamenti minerari e attacca decisamente le prime propaggini delle Ande, lo sterrato si fa più impegnativo mano mano che si sale, anche respirare è più faticoso, peccato per la fredda pioggerellina e la nebbia che mi avvolgono fino al passo a oltre quattromila metri, intorno vulcani, picchi innevati e per un centinaio di chilometri un bellissimo silenzio e una solitudine beata. L’asfalto ricomincia dopo una discesa animata da cactus e terre rosse, all’ingresso del Colca, uno dei canyon più profondi e spettacolari del mondo e punto privilegiato per l’osservazione del volo dei maestosi condor. Faccio sosta obbligata alle terme poco distanti da Chivay, la cittadina più animata della zona e l’unica con un distributore di benzina; gli standard sono sicuramente distanti da quelli europei ma dopo ore e ore di guida di moto cosa ci può essere di migliore che sguazzare nell’acqua calda con un gran bel panorama che mi circonda, quando inoltre fuori è freddo?

La tappa successiva è Arequipa, la città bianca, centottanta chilometri di una strada dalla bellezza mozzafiato, in tutti i sensi! Si guida costantemente oltre i quattromila metri con tratti a poco meno di cinquemila tra altopiani desertici, pampas, vulcani, minuscoli villaggi con le pubblicità dei candidati alle elezioni a sindaco o di una bibita energetica dipinte a lettere cubitali direttamente sulle pareti delle povere case a un piano. Le soste per un mate de coca bollente si moltiplicano, il freddo e l’altitudine si fanno sentire, sempre l’accoglienza è calorosa anche se il mio e il loro spagnolo sono stentati; qui si parla quechua, ma ci capiamo lo stesso, e poi quando dico che vengo dall’Italia… i sorrisi sdentati e le esclamazioni di stupore mi scaldano il cuore.

Avvicinandomi ai “solo” duemilatrecento metri della “Ciudad Blanca” il traffico si moltiplica esponenzialmente, diventa impossibile a ridosso del centro storico, anche in moto si fatica…
Ogni strada del classico reticolato ortogonale tipico delle città coloniali è abbellita da antichi palazzi nobiliari dagli imponenti portali in legno abilmente intagliato, intorno alla Plaza des Armas se ne contano a decine; trovo molto interessante la visita del Monastero di Santa Catalina e salire fra le antiche case in pietra e perdermi per le le stradine acciottolate fino “al mirador”, un punto panoramico sulle Ande e sulla campagna circostante.

Dovendomi dirigere ad est, verso Puno e il lago Titicaca, ho più di un’alternativa per attraversare la “Reserva Nacional de Salinas y Aguada Blanca”: percorrere interamente la 34A, tutta strada asfaltata oppure prendere la 109 e poi deviare dove il “ripio” abbonda. Neanche a dirlo decido per la seconda, l’opzione sterrato. Faccio il pieno e parto di buonora, mi aspettano poco meno di trecento chilometri di paesaggi stupefacenti popolati da alpaca, vigogne, lama, guanachi; un altopiano sterminato a quattromila e trecento metri “dipinto” a strisce rosse, viola, gialle, verdi, interrotte solamente dalle scure sagome dei vulcani che sembrano a guardia della magia e della tranquillità della regione; ritorno sulla 34A e poi svolto sulla 122, arrivo a Puno dall’alto. Il lago Titicaca è immenso. Il giorno dopo dedico l’intera giornata alla visita delle comunità degli Uros, un popolo che vive su isole artificiali, e alla splendida Taquile, intanto mi rilasso passeggiando per la città capitale del folclore peruviano vagando da una bottega artigiana all’altra, un pisco sour come aperitivo e poi una zuppa di quinoa seguita da un classico lomo saltado sono la mia cena ma avrei potuto gustare una trota oppure un cuy arrosto sempre accompagnato da una delle tremila, sì tremila, qualità di patata, di ogni colore e forma immaginabili.

La mattina successiva dirigo le ruote della moto a nord tra coltivazioni e minuscoli villaggi rurali e ancora una bellissima strada che mi porta ai cinquemila metri del passo che una volta superato mi conduce dolcemente nella valle del Rio Huatanay e a Cusco, l’ombelico del mondo e dell’impero Inca. Lungo il percorso, affascinato dal blu del cielo, non posso non fermarmi a Pukarà, una cittadina dove è possibile visitare un piccolo museo ma soprattutto famosa per avere i tetti “popolati” da piccoli tori in ceramica, prendo “torito” portafortuna per portarmelo a casa!
Cusco è strabiliante, i suoi mercati coperti sono densi di umanità, colori, radici, erbe, curatrici, sciamani, venditori di succhi e spremute di tutti i colori e sapori, sacchi di foglie di coca, farine multicolori, rimedi naturali per ogni malessere, tessuti variopinti, animali vivi e cucinati… tutto viene trattato e contrattato al cospetto di millenarie mura ciclopiche che ricordano, nelle loro lavorazioni, la raffinatezza di un popolo figlio del Sole e devoto alla Madre Terra.
Riconsegno e ringrazio di cuore il DR 650, perfetto con il suo 21 anteriore per gli sterrati andini, forse un po’ scomodo e fiacco oltre i tremila e cinquecento metri ma economico e affidabile; preparo il bagaglio, lo lascio in un deposito e mi aggrego a una guida turistica per l’escursione al Machu Picchu… non ci sono parole per descrivere l’emozione e la sensazione di spiritualità, un’emozione talmente forte che non è mutata neanche le volte successive che ho avuto la fortuna di salire fino a lì.

Ho guidato per una decina di giorni, il clima è stato quasi sempre buono, costantemente umido con qualche giornata di pioggia nei tratti andini, le temperature sono andate dai quattro ai trenta gradi, ho percorso poco più di duemila chilometri. Dire che sono stato benissimo… mi pare assai riduttivo.

 

Massimo

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